Sillogismo di Nabokov. Sillogismo di Tolstoj.
Non so che rapporti il primo avesse con il grande romanziere russo e con Ivan Ilic, il consigliere di Corte d’Appello, morto a quarantacinque anni, dopo qualche settimana di malattia, di un male incurabile. Ivan Ilic vedeva che stava morendo, ed era in un stato di disperazione continua. In fondo alla sua anima sapeva che stava morendo, ma non riusciva lo stesso ad abituarsi a quest’idea; non solo, non riusciva a capirla, non ci riusciva assolutamente.
II sillogismo elementare che aveva studiato nel manuale …. “Caino é un uomo, gli uomini sono mortali. Caino é mortale”, per tutta la vita gli era sembrato sempre giusto ma solo in relazione a Caino, non in relazione a se stesso. Un conto era l’uomo-Caino, l’uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era né Caino né l’uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri esseri …
Da un lato desidera durare in eterno, dall’altro sa che la sua battaglia é perduta.
“Oggi sono morte circa 200.000 persone. Alcune sono morte accidentalmente. Altre sono state uccise. Alcune sono morte per aver mangiato troppo. Altre sono morte di fame. Alcune sono morte ancora nel grembo materno. Altre sono morte di vecchiaia. Alcune sono morte di sete. Altre sono morte affogate.
Ciascuno é andato incontro alla propria morte come doveva. Alcuni vi si sono arresi con mente aperta e il cuore in pace. Altri sono morti nella confusione, vittime di una vita non vissuta, di una morte che non sono riusciti ad accettare.”
Riprendo LEWIS Thomas nel suo The Life a cell: ” Le pagine dei necrologi ci fanno sapere che moriamo, mentre gli annunci delle nascite, stampati in caratteri più piccoli e al margine della pagina, ci informano che veniamo sostituiti, ma di tutto questo non afferriamo la portata.
Sulla terra siamo, all’epoca, tre miliardi e tutti, nell’arco di questa vita, dovremo morire uno a uno. Questa sterminata mortalità, che riguarda ogni anno oltre 50 milioni di noi, avviene quasi in segreto. Tra meno di mezzo secolo, i nostri sostituti avranno più che raddoppiato queste cifre. Non si capisce come facciamo a continuare a serbare il segreto, con tanta gente che muore. Dovremo rinunciare all’idea che la morte é una catastrofe, un evento detestabile, evitabile o addirittura strano. Dovremo cercare di saperne di più sui cicli vitali del resto del sistema e sul modo in cui noi siamo legati questo processo. Tutto ciò che viene alla vita sembra farlo in cambio di qualche cosa che muore, cellula per cellula”.
La scienza moderna sta scoprendo la fantastica e complessa danza dei geni responsabili del carattere e dell’identità, una danza che si espande in un lontano passato e rivela che ogni ” identità ” é un vortice di molteplici influssi. La fisica ci ha introdotti nel mondo delle particelle quantiche, un mondo sorprendentemente simile a quello descritto dal Buddha nell’immagine della rete splendente che si dispiega nell’universo. Come le gemme di questa rete, le particelle esistono potenzialmente in quanto combinazioni diverse di altre particelle.
L’uno come parte di un tutto, non indipendentemente, ma interdipendente.
Nel micro e nel macro uguale é la legge dei sistemi. A livello cellulare il controllo viene realizzato attraverso due semplici identici meccanismi, la divisione e la morte.
Morte non come fine ineluttabile e inutile, raramente da evento patologico, ma da progressivo processo di differenziazione fino all’evento ultimo, l’apoptosi o morte programmata, che non é suicidio, ma scelta, per la funzionalità e la sopravvivenza dell’organo nel suo insieme.
In maniera cosi discreta da non determinare, al di fuori, alcuna manifestazione. Ruolo fisiologico nel corso dello sviluppo.
Eppure viviamo in una società condizionata a negare la morte. E’ forse per questa ragione molte persone quando viene per loro il momento di morire, si sentono tanto confuse e tanto in colpa. Della morte si é sempre bisbigliato dietro porte chiuse. Non sapendo come vivere, ci sentiamo colpevoli di morire.
Raramente usiamo la malattia come un’occasione per indagare il nostro rapporto con la vita o per esplorare la nostra paura della morte. Siamo aggrappati a modelli di forma fisica e di vitalità da spot pubblicitario. Pensiamo di essere, soltanto se siamo sani. Come facciamo fissi come siamo su questa idea dell’accettabile, a imparare ad aprirci all’impossibile? Come facciamo a permettere a noi stessi di entrare nell’ignoto con la generosità e coraggio capaci di dare pienezza alla vita ?
A casa seduti in poltrona, leggiamo sul giornale che migliaia di persone hanno perso la vita sotto il terremoto, nel ciclone, d’incidenti. Leggendo tutto questo assumiamo l’atteggiamento mentale del superstite, e l’idea che ” tutti muoiono tranne me ” si fa sempre più convincente.
Star seduti a leggere della morte altrui ci rassicura che siamo ancora siamo vivi, ci rassicura della nostra immortalità. Le altrui sventure compongono un’alta percentuale delle prime pagine, creandoci l’illusione della nostra fortuna.
Quanto ormai lontani da Platone in quel suo affermare che coloro che usano correttamente la sapienza fanno studio costante della morte. Finché non si viene a sapere della morte di qualcuno che si ama. Quando si presenta con tutta la sua drammaticità e l’angoscia ci penetra dentro. Da quell’ esperienza nasce la riflessione del nostro limite, da li può sbocciare la fede, una fede antropologica, altrettanto naturale come appunto la paura della morte.
” La morte senza paura ” uno dei grandi sogni che porta ad immaginare un’altra vita nell’ aldilà.
Un cartellone in chiesa, domenica scorsa, emblematico seppure nel suo limite di spot pubblicitario: nascere vivere morire, e poi ? Se vuoi parlarne, telefona.
Aldilà aperto a chi trova il coraggio di completare la “sua leggenda personale”.
Ma quell’uomo che tende a divenire, attraverso la scienza, la misura del tutto ha lasciato da tempo da parte la dimensione trascendente.
L’accettare l’idea del mistero, non come limite alla conoscenza, ma come elemento della condizione umana. La vita ed il mondo in una realtà più vasta di un tutto in cui dall’ esperienza individuale si ritorna all’appartenenza comunitaria.
” Solo allorquando saremo consapevoli di appartenere a una specie e il senso di tale appartenenza si fará più profondo, impareremo anche a morire ” Lo ha appena ricordato il Prof. Guerci.
La cultura e la civiltà africana, espressione di una derivazione arcaica, ne sono ancora permeate.
Attraverso :
– l’amore e il rispetto per la vita. Per la vita nella sua pienezza, ma anche per la vita che nasce e si spegne e per quella che va al di là della morte. La vita che conserva la sua dignità e riesce ad esprimersi anche in situazioni di difficoltà estrema.
– il senso della vita comunitario e solidale. L’uomo esiste perché partecipa, persona concepita come fascio di rapporti, società come famiglia allargata. Senso di comunità che porta alla solidarietà con i più deboli.
– la sacralità non come opposta al profano ma come modo per guardare tutte le realtà. II sacro é la vita, attraverso i più alti valori dell’esistenza umana.
Diritto alla coscienza: quanto é difficile per questo nostro ” se ” cosi spesso sacrificato al compromesso del e nel quotidiano, cosi spaventato della vita.
Questa parte di noi é rimossa, quanta rinviata ad un ipotetico domani, quanta abbiamo “impedito di nascere, per poter morire integri “.
Si nega la morte anche per paura di perdere l’integrità, ma quanti aspetti abbiamo nascosto perché ” andare in fondo ” faceva troppo male.
Come faremo a morire completamente se abbiamo vissuto in modo cosi parziale.
Se la ricacciamo indietro, quando viene, se facciamo finta che non esista, perdiamo davvero l’ultima occasione di libertà, per riflettere su chi siamo.
E quale é il senso di un falso rifugio di una falsa realtà, ormai priva di tempo. Negare la morte come tentativo di chiudere gli occhi di fronte a realtà che crea sofferenza e disagio, ma facendolo ci autodeterminiamo sofferenza e disagio. Ha senso questo.
Disperato ultimo tentativo di controllo ?
Non é più tempo di fingere.
Si nega la morte per spirito di conservazione: quale conservazione e di chi?
Rileggo al proposito le pagine di un giornale che riprendevano la scomparsa di un uomo politico.
“La sua morte mi si presenta con due volti che non riesco a separare, la fatalità di un male incurabile e la drammaticità di un ‘acuta sofferenza politica ed umana.
Poiché aveva grandemente sofferto nel vedersi negare un ruolo istituzionale.
Rimpianto del ruolo, smarrimento del senso della vita”
La stessa rabbia, la paura diventano occasione di approfondire la conoscenza di noi stessi, di meditazione alla vita, di uscire allo scoperto.
La consapevolezza attraverso la ribellione interiore contro la forza dell’abitudine attraverso l’espressione libera dei sentimenti, non mediata dal vaglio del giudizio.
L’ammorbidimento e l’apertura che ne risulta illumina ciò che é sempre stato li, mollare la presa, lasciare che le cose siano cosi come sono, passeggeri nel corpo.
“Quanto più vi aprite alla vita tanto meno la morte diventa nemica. Quando cominciate a usare la morte come mezzo per concentrarvi sulla vita, tutto diventa semplicemente cosi com’é, un’occasione straordinaria per essere vivi davvero”.
Molte persone affermano di non essere mai state tanto vive come nel momento in cui hanno preso coscienza della morte, abbandonando i modelli per scoprire cosa ci sia dentro, la loro vita diventa una ” cerca ” di verità.
“Oggi é un bel giorno per morire perché sono presenti tutte le cose della mia vita”. Non è frase ” nostra “, ma comune negli Indiani d’America.
L’integrità non legata alla durata della vita, ma alla pienezza nella quale ciascuno entra in ogni momento.
Per noi la vita é come una retta, tanto più lunga la linea, tanto più immaginiamo di aver vissuto, tanto meno spaventosa pensiamo la fine.
Per loro é un cerchio che si completa attorno all’età della pubertà.
Da allora l’essere umano é un intero che si espande verso l’esterno. Ma una volta che il cerchio si chiude in qualsiasi momento si muoia, si muore interi.
Può diventare nostra:
“Carissimo,
Proprio ieri insieme a un ‘amica rileggevo pezzi di un libro di Marina Cvetaeva (“Indizi Terrestri”), Dice a un certo punto :
“Le anime sono grate, ma le anime sono grate esclusivamente per le anime . Grazie per il fatto che esisti “.
Allora, io continuo come mi hai detto/dato, l’autunno é arrivato e si okay cercherò di tenere duro, sperando di riuscire a capire tutte le volte che il tener duro vuol dire invece essere morbidi. Perché é quella – credo – la vera forza, la vera resistenza :non fare muro ma in qualche modo assecondare gli eventi, vincerli (se sono da vincere) passandoci dentro, conoscendoli, facendosi anche cambiare da loro.
Un evento malattia non richiede solo una reazione attiva ma anche – penso -, credo di aver capito ultimamente -passività, una passività sana che é recettività,é una specie di far tesoro di tutto quello che ti capita.
E’un grande grandissimo lavoro interiore. A me sono capitati per esempio begli incontri (avrei incontrato te -per esempio -al di fuori di tutta questa vicenda ?
Béh, non era escluso in assoluto ma almeno più improbabile).
E in generale una specie di intensificazione della vita intesa in senso profondo.
Forse vedo un po’ di più, sento un po’ di più.
Ti pare poco ? Contenta di esistere, più ancora di prima.
Un abbraccio “.
Lasciare la vita, lasciare il mondo: lasciare tutto e tutti. Spogliarsi della propria vacuità e miseria.
Combattere perché ciò non avvenga. Provare tutti i riti religiosi e mistici di questo mondo.
Alla fine sorridere con la morte negli occhi. Proseguire in modo normale, costante, con tenacia.
Amare la vita ed il mondo, anche quando non c’é più ragione apparente per farlo.
II coraggio di vivere il quotidiano, non perdendo di vista il superiore.
Accettare. Capire. E fondamentalmente sorridere m modo sereno: come una statua che ha capito tutto, che ha preso il distacco da ciò che é inutile, vacuo, privo di un vero significato.
Nulla ti tocca più. Nulla ti ferisce più. Anche il dolore fisico: non ti fa più paura.
Le pene di tutti i giorni non hanno più valore. Le meschine guerre di tutti i giorni che finalmente perdono terreno, per lasciare spazio a dimensioni diverse: eterne, anche nell’ambito
del quotidiano.
Chiudere i conti non é mettere a posto tutti i tasselli, non c’é abbastanza tempo, o energie sufficienti, é più semplicemente abbandonare i rancori, accettare ed accettarsi non per quello che vorremo essere, ma per quelli che siamo.
Ma in questo viaggio non siamo da soli.
Nel palcoscenico oltre ai due protagonisti dei quali una é latente, sovente rimossa ne compaiono altri due, i famigliari e l’operatore sanitario, spesso non consapevoli del ruolo di
accompagnatori.
“Non si può insegnare alla gente a morire. Si possono dare lezioni solo a se stesso”
( Leon Schwartzenberg).
0 ancora :
“Nel lavorare con chi soffre riconosciamo che l ‘unico lavoro da fare é su noi stesi”.
Non possiamo spostare in avanti i confini altrui, possiamo soltanto cercare di spostare avanti i nostri.
Titolo del primo momento: diritto alla consapevolezza.
La prima necessità: comunicare, restaurare una relazione che mette m gioco le persone nella loro interezza e integrità.
Comunicazione verso la congiura del silenzio.
Comunicazione verso l’isolamento.
Tutti sanno di stare morendo.
Lo capisco da un’attenzione diversa, ma aspettano che gli altri ” medici o famiglia ” glielo confermino.
“… tutti intorno a me facevano del loro meglio per apparire spensierati e ottimisti, ma ottenevano l’effetto opposto. Trovandomi in una situazione nella quale quando erano vicino a me tutti si comportavano soltanto in modo positivo avevo capito fino a che punto non facessi più parte di quel mondo.
…..non era possibile che i medici e le infermiere-che si occupavano di me fossero sempre di buon umore.
….. la stessa cosa accadeva con la mia famiglia e con i mie amici.
Ognuno cercava di aiutarmi spiegandomi quanto fossi splendida e coraggiosa.
Anche il mio uomo mi trattava in modo diverso…… sicuramente la sua intenzione era di proteggermi ma io avrei avuto un mucchio di cose da dirgli”.
Aggiungo : gli esseri umani non stanno vivendo o morendo, o sono vivi o sono morti. E finché sono vivi vanno trattati da vivi.
Non é facile, perché portiamo dentro e fuori le nostre paure, vissute individualmente e proiettate sugli altri.
La morte dell’altro significa evocare l’ansia legata alla propria morte.
Paura del medico: l’ansia di guarire perché malattia e morte sono l’immagine del fallimento.
Negare la morte attraverso il distacco professionale, o la fretta, per la difficoltà di ammettere il limite della scienza e della tecnologia ” onnipotenti “.
Ma la negazione del medico lo può portare all’inizio del viaggio ad una scelta terapeutica ” a qualsiasi costo” che spesso il malato subisce perché non indica cambiamenti radicali nello stile di vita.
Ma se nel vivere ” a tutti i costi” é il valore della vita, vivere a ” qualsiasi costo ” é la perdita di dignità.
All’altro estremo l’accettazione del malato che “non é rassegnazione, ma vittoria, piena e consapevole presa di coscienza della propria vita” porterà il medico cosciente della sua impotenza e fallimento, all’abbandono terapeutico.
Paura della famiglia : iniziale per la difficoltà a gestire le tensioni emotive e la frustrazione nella comunicazione.
D’adattamento a cambiare ruolo e lo stile di vita e soprattutto a vivere in quell’incertezza che i Tibetani chiamano impermanenza.
Terminale nell’affrontare i sentimenti di separazione.
“Caro dottore, per favore, non mi nasconda la diagnosi.
Sappiamo entrambi che io sono venuto da lei per sapere se ho il cancro o qualche altra grave malattia. Se so quale é il mio male, ho meno paura perché so contro che cosa combattere. Se lei mi nasconde la verità, mi toglie la possibilità di essere di aiuto a me stesso. Mentre lei é ancora in dubbio, io ho già capito tutto; forse lei si sentirà meglio non dicendomi nulla ma il suo inganno mi ferisce profondamente.
Non mi dica quanto mi rimane da vivere!
Soltanto io posso decidere quanto tempo vivrò.
E’ una decisione che dipende dai miei desideri, obiettivi, valutazioni, dalla mia forza e dalla mia voglia di vivere.
Cerchi di spiegare a me e dalla mia famiglia perché e in che modo mi sono ammalato.
Ci aiuti a vivere qui e adesso.
Mi spieghi per favore di che cosa ha bisogno il mio corpo
e come devo nutrirlo.
Mi indichi come utilizzare quello che so e come posso fare in modo che il corpo e la mente diventino una unità armonica e lavorino insieme.
La guarigione proviene da dentro, ma voglio che la mia forza sia unita alla sua.
Se lei ed io lavoriamo insieme, la mia vita sarà migliore e più lunga.
Dottore, non permetta alle sue opinioni negative, alle sue paure ed ai suoi pregiudizi di influenzare la mia salute.
Non sia un ostacolo alla mia guarigione e al superamento delle sue aspettative. Mi dia la possibilità di essere l’eccezione alle sue statistiche.
Mi spieghi con chiarezza le sue terapie e le sue convinzioni e mi aiuti a fare in modo che diventino un tutt’uno con le mie. Ricordi però che la mia opinione é sempre la più importante.
Una cosa in cui non credo non mi sarà di nessuno aiuto.
Cerchi di capire che la malattia per me non significa morte, dolore, paura dell’ignoto.
Se decido per una terapia alternativa non mi abbandoni.
Provi a convincermi, ma con pazienza e sappia aspettare con calma che cambi idea.
Potrebbe accadere in un momento di disperazione, in un momento in cui ho immenso bisogno delle sue cure.
Dottore, insegni a me ed alla mia famiglia a convivere con il mio male quando non sono con lei.
Risponda alle nostre domande e ci dia attenzione quando ne abbiamo bisogno.
E’ importante che io mi senta libero di parlare con lei e di porle le mie domande.
Se noi riusciamo a sviluppare un rapporto ricco e profondo, la mia vita avrà un significato unico e irripetibile.
Ho bisogno di lei per poter raggiungere i miei obiettivi “.
II tentativo odierno é in fondo quello di sempre, attraverso l’arte, la scienza e la spiritualità.
Modi diversi che si toccano in questo eterno divenire nel quale ci troviamo inevitabilmente a salire sulla scena per coprire, nel tempo, i ruoli di tutti e tre i personaggi.
Maurizio Grandi